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Padre e figlia ce l’hanno con Cris

Ho divorato  Cris. Preciso: Cris il libro, di Manuela Salvi, ed. Fandango collana Weird Young, appena uscito. È un libro per Young Adult che merita riflessioni circostanziate. Anzi, merita e basta: leggetelo. Fine.

Potevo cavarmela così. Però vale davvero la pena spiegare perché Cris sia una buona lettura. E ritenendo la mia voce insufficiente allo scopo, ho pensato di imitare Michele Monina (quel giornalista che commenta Sanremo scrivendo pagelle in parallelo con la figlia) ed ho passato il volume a mia figlia diciottenne Rachi (Rachele): ecco di seguito i nostri commenti.

RICCARDO

“Devo essere scemo!” ho pensato leggendo pagina 49 di Cris. La copertina riproduce un personaggio che ricorda Gary Oldman ne “Il quinto elemento”, quindi un cattivo, quindi il sospetto che il libro parlasse di un “ragazzo ribelle”, e che fosse tutta lì la novità, c’era già: alé, bum, senza nemmeno aver letto una riga. Perché adesso van di moda libri così, dove la “ribellione” del protagonista, femmina, dopo varie vicissitudini traguarda necessariamente in un successo planetario. Trattasi quindi di esercizi narcisistici, mistificazioni, dove il termine “ribelle” etichetta qualcosa in realtà del tutto organico al sistema.

Cris il protagonista, invece, è un giovanotto che ha già tutto dalla vita: è bello, intelligente, ha voti ottimi ed è stato ammesso all’Università. Ha una famiglia solida, benestante. Non ha nessun problema. In occasione del viaggio verso un luogo di vacanza, deciso come sempre dalla madre (il padre, più che modernamente pallido, è ectoplasmatico), si ritrova a far tappa in un Autogrill a ponte sull’autostrada. Lì la madre insiste perché vada al bagno nonostante lui non ne abbia bisogno, e scatta la ribellione. Cris si accorge che la sua vita è come un film la cui sceneggiatura è scritta dagli altri. Il suo benessere, i suoi stessi successi, sono in realtà pagati a caro prezzo con la totale alienazione della libertà. Decide così di scendere dall’altra parte dell’Autogrill, nella direzione di marcia che va verso il mare. Si sbarazza del cellulare per non essere rintracciabile, come ha visto fare in tanti film. E si ritrova a Riccione, senza un soldo, senza un posto dove andare, senza amici, per la prima volta totalmente padrone di sé stesso: quasi per caso, ma subito consapevole, comincia a costruirsi una nuova identità. Per mantenersi il ragazzo dovrà “arrangiarsi”, finirà per sperimentare l’alcool, amicizie equivoche e vivrà episodi sessuali trasgressivi. No, Cris non è un “ragazzo ribelle” nel senso che si diceva sopra. La sua storia è descritta come se fosse un reality, come se un drone seguisse il protagonista passo passo. Questo realismo rende Cris un personaggio straordinariamente vivo, tridimensionale, e assieme a lui i personaggi minori e gli ambienti vengono tratteggiati con efficacia. La sua è una ribellione vera, con una ben precisa contabilità dare-avere, un percorso di crescita non omologato.

Dicevamo di pagina 49. Un qualche americano ha sostenuto che per capire se un libro ci può piacere bisogna leggere pagina 49 (ogni volta che viene ripetuta ‘sta cosa, nel mondo quarantanove editor di quarte di copertina si danno all’ippica). In realtà io ci sono arrivato per caso, a pag.49, perché ho trascorso le prime 48 pagine a immaginare altrettanti modi di prendere a ceffoni il Cris. Ma, sia chiaro, schiaffi seri, smatafloni bolognesi col ciocco, paccaruni seriali napoletani, di quelli da ribaltarlo col giro, testa piedi testa e daccapo. Perché a un genitore certe cose proprio non gliele puoi far leggere. Lo fai stare male. Tutta colpa di Cris.

Cris è un ragazzotto viziato, con attitudine alle scelte isteriche, e manco troppo intelligente: un pollo. Parliamoci chiaro: a Riccione combina più o meno quello che avrebbe comunque combinato durante l’Erasmus, ma senza soldi e senza la scusa della barriera linguistica (pollo!). L’esperienza lavorativa l’avrebbe comunque fatta, per via di un tirocinio all’Università, con maggiori tutele giuslavoristiche (pollo!), o magari d’estate, per accompagnare la morosa a fare esperienza in una fattoria bio, maturando anche qualche punto di anzianità pensionistica (bio-pollo!). Ah, questi terribili genitori che gli avrebbero dato tutto ciò: mondo crudele!

Poi nel lettore il cuore del papà prende il sopravvento, e fra gli smatafloni si fa strada una sorprendente empatia per il protagonista. Per questo dicevo di sentirmi scemo. Perché pian piano ho fatto il tifo per Cris – che è come per un topolino fare il tifo per il serpente – perché superi i problemi e, soprattutto, decida di continuare a “scrivere” la propria vita in libertà. Ma, attenzione: questa cosa resta possibile solo recidendo i legami con tutte le persone che ci sono vicine, e nel libro ciò emerge forte e chiaro. Il tono dell’autrice può essere percepito come leggero e scanzonato, il che rende la lettura piacevolissima, ma di materiale per fare qualche seria riflessione ce n’è a piene mani, sia per noi che per i nostri ragazzi. Nel romanzo sono affrontati anche temi inusuali per la maggior parte dei volumi Young Adult, ma penso di poter rassicurare genitori ansiosi e lettori scrupolosi: non c’è nessun voyerismo o compiacimento, ma troverete la volontà encomiabile di mettere il lettore di fronte alla realtà lasciandogli poi la libertà di prendere posizione nei confronti della medesima. Visti i tempi, una gran cosa.

RACHI

“Ma tu sei scemo!” ho detto a mio padre quando mi ha chiesto di leggere Cris. Non ho mai letto nulla di suo, neanche quella volta che è andato di nascosto in copisteria, ha stampato dei suoi racconti e mi ha dato la carta perché ci facessi le brutte copie, nella speranza che per sbaglio leggessi qualcosa. Figuriamoci se leggo su suo consiglio il libro di qualcun altro.

Ma in copertina c’è il ritratto di un ragazzo super-bello, e assieme inquietante, tipo Dorian Gray, che mi ha intrigata, per cui alla fine ho accettato. Cris, il protagonista del libro, decide di tagliare i ponti con i genitori e muoversi in totale libertà. Fugge, si libera del cellulare e si ritroverà nella Riccione delle vacanze estive, colorata e accogliente, alla quale lui si approccerà da un punto di vista nuovo per noi lettori, nei suoi aspetti più umili, come se la guardasse a livello marciapiede dalle finestre a feritoia del seminterrato dove vive una sua amica. Disconnesso dalla sua realtà familiare, Cris si ritrova a vivere una avventura che lo porterà a conoscere il sesso, l’amore in varie combinazioni, e a raggiungere un equilibrio magari precario, ma che gli appartiene al 100%. Sì, è un romanzo di formazione, ma non enfatico né tragico. È una avventura agrodolce, alla fine tanto romantica, ricca di personaggi secondari che sbocciano con naturalezza, cameo troppo forti – NDP: nel senso di “parecchio belli” – nella loro caratterizzazione.

Una cosa nuova di questo libro è l’attenzione – a 360 gradi- alla fisicità. Non solo c’è una continua attenzione alle sensazioni che prova Cris (fame, sete, odori…), ma anche ai bisogni fisici, e alla dimensione sessuale. Sotto questo aspetto mi ha colpita l’attenzione al corpo di Cris, cosa nuova perché negli altri libri per Young Adult si parla sì di corpi femminili, ma mai di corpi maschili.

Anche il modo di rappresentare gli adulti è degno di nota: si va dalla famiglia normativa agli “adulti fuori controllo” che popolano la discoteca Mon Chéri.

L’unica cosa un po’ triste è che alla fine Cris non si mette assieme alla sua amica Lori o, meglio, la cosa gli riesce solo al 50%. E quando leggendo le ultime pagine ho pianto, ho pensato che fosse un po’ anche per quello: tutta colpa di Cris.

Fine

P.S. Nessuna figlia è stata maltrattata durante la redazione di queste recensioni. Nemmeno prima e neanche dopo, a dir la verità.

P.P. S. Rachi non esiste. Non ho nessuna figlia di nome Rachele (che io sappia). Mia figlia quella vera si chiama in modo diverso, ha pochi anni in più e scrive decisamente meglio di Rachi. Comunque, Cris lo sta leggendo e le piace.

Cris, Manuela Salvi, ed. Fandango, collana Weird Young, 2022, ISBN978-88-6044-815-6

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ARCHETIPO INVERNALE

Fotografia e poesia – INVERNO di Roberto Cerè

Al giorno d’oggi la comunicazione scritta è gestita quasi esclusivamente per mezzo di post e la parola è legata con costanza eccessiva all’immagine: il tempo è dedicato semmai alle serie televisive, per tutto il resto rapidità e superficialità la fanno da padrone.

Poi succede di trovarsi fra le mani un libricino come “Inverno” di Roberto Cerè.  Il formato è quello giusto, quasi tascabile, e rende facile poterlo portare con sé, infilato in una borsa o nella giacca, così discreto che potrebbe capitare di dimenticarsene, e sarebbe quasi una fortuna, per riscoprirlo al momento giusto, in occasione di una pausa, di una attesa, lasciandosi catturare dal suo fascino sottile. Un fascino che deriva dalla capacità inaspettata di rallentare, fino a fermarlo, il tempo che scorre attorno al lettore. “Inverno” è composto da 31 fotografie e 12 commenti poetici che con un suggestivo controcanto descrivono l’inverno in Valsamoggia. Sono foto che l’Autore ha scattato nel corso di lunghe e silenziose passeggiate, frutto di una attenta osservazione della natura. Pur essendo geograficamente collocate, le foto ritraggono aspetti così intimi e universali del creato, da assumere il valore di archetipo universale. Guardandole si prova la netta sensazione di riscoprire le immagini caratterizzanti dell’inverno così come esso è da sempre, fuori dagli stereotipi, come da sempre ciascuno di noi lo porta nel cuore. Sono foto indubbiamente belle, quelle di Cerè, ma non puntano per nulla all’effetto, alla lettura immediata e facile. Così costringono il nostro occhio a fermarsi, a indagare le immagini, apprezzandone ogni dettaglio, mentre la nostra mente rallenta e si ritrova come per magia nel regno cristallino e immobile dell’inverno. A differenza di quanto accade spesso in opere analoghe, per una volta i titoli dati alle foto e i commenti poetici sono perfettamente funzionali alla condivisione delle sensazioni che le foto ispirano. Così “Traccia ghiacciata” è “l’arco di quel piccolo ramo / avvolto dal ghiaccio del mattino / come un monile”, mentre nell’intreccio di rami di “Sentimenti di chi vuole esserti vicino”, “ci vedo due corpi intesi / ad abbracciarsi”. Bellissima poi l’ultima foto “Rivolo con luce d’inverno” che sembra uscita dal pennello di un grande pittore impressionista.

Ci sono piccoli libri che alla prova dei fatti rivelano un peso specifico importante: “Inverno” di Roberto Cerè è sicuramente fra questi. “Inverno” è solo il primo frutto di un progetto che vuole raccontare le quattro stagioni in Valsamoggia nel 2021. Roberto Cerè è anche l’ideatore di “Millecolline”, rivista d’arte web indipendente, che ha l’obiettivo di far conoscere quanto di “bello” accade in Valsamoggia e dintorni (www.millecolline.it).

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BRAVE PERSONE CHE FANNO LA DIFFERENZA

Narrativa – ELIDE MALAVASI di Arnalda G.Forni Cavalieri, SEAB Editore

Un eloquio personalissimo, fluido, frizzante, fresco come un torrente di montagna, e al contempo prezioso, dotto. La capacità rara di tradurre in una dimensione prettamente bolognese, per non dire domestica, concetti e giravolte culturali di respiro almeno continentale, se non di più. Un’umiltà di fondo nell’approccio al contenuto, davvero magmatico dal punto di vista affettivo, che si fonde con l’elegante professionalità della divulgazione degli aspetti storici e culturali. Una superficie arruffata, increspata di emotività, al di sotto della quale si scopre via via un estremo rigore nella ricostruzione storica dei fatti…. e una ricostruzione storica che si stempera e sparisce nell’affetto non sentimentale, o non solo, ma profondo e razionale che lega ogni parola.
Tutto questo è “Elide Malavasi” di Arnalda G. Forni Cavalieri.
È un libro d’amore che suscita amore: questa la definizione migliore, perché altrimenti l’opera resta di difficile classificazione.
È intitolata a una persona, quindi ci si aspetta di leggere una biografia: nient’affatto! Come un Santo Graal, Elide Malavasi è indagata nel libro, e viene resa nota al lettore, ma alla fine molto di lei sfugge, resta una presenza ectoplasmatica, una specie di matrice capace di dare forma a quanti la conobbero, ma impossibile da conosce nella sua totalità. Un po’ come la luna che ha due facce, una sola delle quali visibile. Eppure il metodo atto a forgiare “brave persone che dovranno fare la differenza” messo in atto dalla protagonista è chiarissimo.
Non è un libro storico, prima di tutto perché il dialogo con il passato, sul quale pure è costruito, è talmente naturale e vivificante che ogni distanza cronologica crolla di fronte a una attualità innegabile.
Non è nemmeno un libro scientifico, anche se leggendolo non si può che essere grati all’autrice per come riesce a spiegare con efficacia concetti non sempre immediati di pedagogia.
L’opera è un’opera libera, quindi come si diceva poc’anzi non definibile, ma alla fine prova la verità del motto del padre e dell’autrice: “I libri sanno dove devono andare “. Ciascuno di noi saprà trovare, con soddisfazione certa, la sua personale chiave di lettura.
Bolognesissimo nei contenuti, e ancora di più se possibile nell’esposizione e nella mentalità che questa sottende, “Elide Malavasi” lascia stupiti per la descrizione di un microcosmo che si ricompone, in uno spontaneo caleidoscopio, in un racconto epico, capace di divertire titillando concetti primigeni, piacevolmente fulminanti. Un esempio? La pagina in cui si parla di Padre Marella dove deflagra questa frase: “si ancorò con forza al trascendente facendone una certezza tattile”.
La parte dove si parla del mitico ’68, e di come lo risolse la signorina Malavasi, è spassosissima, ed emblematica assieme di come andrebbe demitizzato quel periodo.
Bellissima la pagina sul rispetto, da stampare su volantini e distribuire ovunque, tanto al tempo d’oggi ci sarebbe bisogno di una riflessione sul tema.
Doveroso infine un applauso al prezioso apparato fotografico e di note che accompagna il testo.
In sintesi: lettura consigliatissima!

…A riprova di quanto detto sopra, il libro è stato apprezzato da sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, ed oggetto di un bell’articolo di Massimo Cutò su Il Resto del Carlino (il testo dell’articolo è disponibile qui: https://www.google.com/amp/s/www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/elide-malavasi-la-montessori-bolognese-1.6176084/amp)

(Elide Malavasi, Arnalda G.Forni Cavalieri, SEAB 2020,, ISBN 978-88-96278-01-7)

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Neorealismo giallo

Narrativa – PRIMO VENNE CAINO di Mariano Sabatini, Salani Editore

Avvolgente. Parlare del secondo romanzo che Mariano Sabatini (Premio Flaiano, Premio Romiti e altri meritati riconoscimenti) dedica al suo Leo Malinverno, mi mette un po’ a disagio, perché so di non poter aggiungere nulla a un successo così meritato: provarci è una follia.
Però “Primo venne Caino” merita la follia di rubare in sacrestia, di brandire un cotton-fioc davanti a Greta, di ballare la macarena al cimitero. Merita soprattutto di essere letto e riletto. Perché ci si ritrova tutto quanto fa de “L’inganno dell’ippocastano” un bel romanzo e, soprattutto, ce lo si trova in misura anche maggiore.
In “Primo venne Caino” i personaggi si abbandonano a una sorta di sentimental-esistenziale ballo del palo intrecciato attorno alle gesta di un serial killer, il tatuatore, che uccide asportando alle vittime brandelli di pelle con tatuaggi. Su tutto giganteggia una Roma torrida, indifferente, sporca, dichiaratamente invisibile ai romani ma presente nel libro con scorci di abbacinante bellezza, proposta al lettore con una raffinatezza da gran letteratura e un realismo degno di Comencini. Non rimane deluso chi cerca il giallo, né chi ama i colpi di scena, né chi vuole conoscere meglio il personaggio ben tratteggiato di Leo Malinverno. Ma ciò che rende “Primo venne Caino” una opera dalla quale non ci si stacca facilmente, ciò che ne fa una prova letteraria prima ancora che un romanzo “di genere”, è la capacità dell’autore di descrivere una atmosfera, un ambiente, e per suo tramite un modo d’essere che può manifestarsi così solo in quella particolare dimensione spazio-temporale. Dicevo di Roma: una Roma respirata fra le pagine in tutta la sua meraviglia e la sua decadenza, una umanità che vi si aggira distratta, senza quasi proiettare ombre, come ne “La partenza degli argonauti” di Giorgio de Chirico, perché in quel luogo sublima il proprio dramma in una sostanziale inconsistenza. L’erotismo mediterraneo, soffuso ovunque, delizioso nella sua interpretazione retrò, anni ’70, trova la sua ragion d’essere più che nel fascino virile di Malinverno nella necessità di bilanciare il Thanatos che striscia fra le righe del romanzo: di più, è il controcanto all’intreccio di sentimenti che costituisce il non scontato bonus aggiuntivo alla storia di un crimine. Il coraggio di inserire in una trama “gialla” l’approfondimento psicologico anche dei personaggi secondari, la capacità di trattare con naturalezza argomenti non semplici come la malattia o i rapporti fra le generazioni, il modo disincantato di guardare al mondo dei “mass media”, la maestria nel rappresentare la realtà contemporanea in modo diretto ma con grande senso della misura: tutto questo fa di questa opera una esperienza letteraria che non si dimentica facilmente, destinata a durare nel tempo.
Senza dimenticare che uno scrittore, che negli anni duemila ha il coraggio di riesumare il sostantivo “belluria” in un’opera destinata al grande pubblico, merita già solo per questo tutta la nostra simpatia!

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Lilith

Narrativa – Moon. Antologia a cura di Divier Nelli, Lisciani Libri

Prezioso. Anche quando non si è più giovani come il sottoscritto, non sono tanti gli eventi di rilevanza storica dei quali si può dire di essere stati testimoni. Ebbene, all’epoca dello sbraco sulla luna, il 20 Luglio 1969, io c’ero. Ricordo in modo abbastanza nebuloso il fatto che l’allunaggio fosse un episodio della rivalità fra le due superpotenze (che volete, le notizie mi arrivavano soprattutto tramite le immagini di Topolino o di Oggi, e qualche frammento di telegiornale; avevo capito che c’era una gara ma non esattamente fra chi)… ma ho ben chiara in mente l’immagine del sottoscritto che guarda la luna sperando che lassù ci si trovasse qualcuno, o di mia mamma che torna dalla parrucchiera con un incredibile gadget di plastica che simulava un frammento di roccia lunare (fin da allora classificato come orribile, eppure conservato per anni, se non altro come simulacro dello spirito imprenditoriale delle parrucchiere di periferia). Nettissimo poi è il ricordo della trasmissione dell’atterraggio con i commenti di Tito Stagno, e potrei citare a memoria alcuni libri celebrativi che prevedevano già per gli anni ’90 la prima base sulla luna. Tutto molto bello.
E poi?
Ottima l’idea di Divier Nelli di dedicare una antologia di racconti, alcuni di famosi scrittori di vaglia, altri di esordienti, tutti interessanti, allo sbarco sulla luna nella ricorrenza del cinquantennale: se i fatti storici sono noti, solo un approccio artistico a più voci può restituire attualità alle immagini in bianco e nero dell’epoca. Di più, la qualità dei contributi consente di distogliere lo sguardo dalla siderale freddezza dei dati scientifico-tecnici per riflettere su cosa davvero significò quell’evento a 50 anni di distanza. Un libro prezioso, quindi, per le inedite prospettive che consente di esplorare, e perciò quanto di più lontano da un “istant book” si possa immaginare.
Fra tutti i racconti, due parole vanno dedicate a “Il lato oscuro della luna” di Mariano Sabatini.
La capacità evocativa di Sabatini nel rappresentare Roma e la società romana è cosa nota ai moltissimi che apprezzano, non solo in Italia, i suoi gialli. Ancora una volta quindi è la capitale a fornire la scenografia nella quale si muovono i personaggi. Una Roma evocata con i nomi di strade celebri, descritta quasi incidentalmente per il suo clima o per la sua luce, e calata all’epoca del film “Vacanze romane” dalla vespa e dalla decapottabile guidate dal protagonista. Questa scenografia minimalista e rarefatta, lunare appunto, è popolata da individui decadenti che romani non sono, e che abitano lì solo per non essere altrove, o viceversa in attesa di andare presto altrove. Il protagonista de “Il lato scuro della luna”, il giornalista RAI Osvaldo Cataldi Manoja, è l’abitante perfetto di una Roma che, città eterna, si muove nel tempo per inerzia e arriva sempre in ritardo al presente: in questo caso ha ben poco del dinamismo della fine degli anni ’60. Cinico, anaffettivo, annoiato, il personaggio è descritto magistralmente nella sua inconsistenza e ahimè, nella sua valenza di archetipo dell’italiano medio. Che c’entra quest’uomo, di cui nel racconto percorriamo l’intera vita, con lo sbarco sulla luna? Niente, in realtà. Sabatini decide di descrivere l’allunaggio sullo sfondo di una storia d’amore. Dire di più significherebbe svelare più del dovuto la trama, ma l’importanza dell’opera sta nel valore metaforico che assume la vicenda umana rispetto all’episodio storico. Si viene così presi elegantemente per mano e portati a riflettere su cosa sia stato effettivamente dal punto di vista culturale lo sbraco sulla luna. E la risposta è chiara: una impresa fallocratica, una avventura straordinaria, eroica ma, senza seguito come è rimasta fin’ora, fondamentalmente inutile. La sensibilità artistica di Sabatini ci porta a pensare che in realtà in quell’allunaggio abbiamo perso molto più di quanto abbiamo guadagnato: la luna deflorata non interessa più ai poeti e nemmeno agli autori di fantascienza. Non serve nemmeno come meta di nuove spedizioni spaziali, nelle quali compare semmai, e non sempre, solo come tappa per un viaggio su Marte. L’allunaggio, quindi, ha lasciato dietro di sé il nulla. A meno che non si voglia vedere nella decadenza dell’occidente tutto, seguita a quella epocale impresa, la rivincita della luna, nelle vesti di Lilith, la luna nera, demone avverso al potere generativo maschile. E dopo cinquant’anni, che ne è stato dell’ormai anziano Osvaldo Cataldi Manoja? Lui è lì, sulle rive del Tevere, a dimostrare quanto sia vera la massima di Chateubriand: “Per un grand’uomo nascere non è tutto: bisogna morire”.

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Le scarpe degli angeli

Narrativa – SHOEFITI Di Caterina Falconi, I romanzi della BLACK LIST, Lisciani Libri

Delizioso. Se questo romanzo fosse un dolce, sarebbe una ciambella, di quelle fragranti e ghiotte da assaporare con soddisfazione nel salotto di casa, sorbendo una tazza di buon tè. Magari vicino a qualcuno steso sul tappeto, con un coltellaccio piantato nella schiena. Eh sì, perché se in Shoefiti gli ingredienti del giallo ci sono tutti (rapimenti, sangue, avventura…), il racconto è però ricco di molti altri spunti, e il risultato complessivo viene ricondotto perciò a una dimensione che, per la sua naturalezza, è molto adatta ai più giovani.

Shoefiti è la moda di lanciare scarpe legate per i lacci così che rimangano appese ai cavi della luce, ai lampioni o agli alberi. Non si sa bene il significato di questo gesto, da alcuni ricondotto a un segnale per tossicodipendenti, ma la moda nata negli Stati Uniti si è diffusa ormai in tutto il mondo. Caterina Falconi ne dà una interpretazione tutta sua: sono le scarpe degli scrittori che, si sa, in genere hanno la testa per aria quindi, ça va sans dire, camminano nel cielo. Per conoscere un’altra interpretazione possibile, bisogna leggere il libro, dove due ragazzi abruzzesi sono chiamati a risolvere l’enigma del rapimento delle loro nonne: dovranno viaggiare fino a Bologna per risolvere il mistero. L’attento uso di tutti i topoi che fanno di un romanzo per ragazzi un buon romanzo, fa di Shoefiti il testo ideale per una scuola di scrittura dedicata alle opere per i più giovani. La scrittura di Caterina è fluente, l’attenzione alla realtà contemporanea è sempre presente, il riferimento dialettico con i valori con la “V” maiuscola è continuo, mai banale. L’uso frequente delle similitudini arricchisce la narrazione di immagini suggestive, il cui lirismo conferisce una profondità sensoriale alla vicenda e testimonia la sensibilità profonda dell’autrice: una vena poetica che proprio non ce la fa a restare carsica ma affiora in superfice tutte le volte che può. La tenerezza materna con cui sono delineati gli spasimi amorosi del protagonista dona alla storia sfumature delicate a cui non siamo più abituati. La solitudine degli adolescenti, non più bambini e non ancora adulti, la rabbia nei confronti dei genitori, l’affetto per i nonni, l’incomunicabilità fra le generazioni sono narrate come fatti naturali, quali tappe di un percorso di crescita, senza velleità rivoluzionarie o drammatiche.
L’ambientazione è precisa e suggestiva. Che piacere ritrovare l’Abruzzo che amo (errata corrige: la gente d’Abruzzo che amo, così rocciosa all’apparenza e così piena di cuore e passione appena ne diventi amico), i treni che sfrecciano inseguiti dalle onde del mare delle Marche, una Bologna godereccia, cialtrona e iperbolica.
Una storia piacevole che, con una equilibrata sapidità drammatica, senza cercare l’effetto fine a se stesso, sa ricondurre con naturalezza la dimensione dell’avventura alla rassicurante quotidianità del lieto fine.

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Moai in Sicilia

Uno spazio minimo – Rosalia Messina

Ci sono libri che vengono letti quasi senza accorgersene, pagina dopo pagina, quasi si venisse cullati dalla corrente di un fiume, senza fare nessun’altra fatica che voltare le pagine, e immergersi nei paesaggi e nelle vicende di volta in volta descritti.
Quando ho aperto “Uno spazio minimo”, di Rosalia Messina, Melville Editore, pensavo di trovarmi davanti a un racconto del tipo “Lessico Familiare” di Natalia Ginzburg. E qui vanno dette due cose: la prima, che ho letto Lessico decine di anni fa ma per me rimane il termine di confronto imprescindibile quando si parla di vicende familiari, la seconda, che conosco di fama Rosalia Messina quindi il paragone non mi sembrava affatto azzardato.
Mi aspettavo di trovare un affresco familiare, dipinto con pennellate sapienti, con mano femminile, dolce e profonda.
Invece ho dovuto metterlo da parte, quel libro, perché già le prime pagine soso state come coltellate. Per carità! È scritto benissimo, con eleganza, è un libro da leggere! Ma per me è stato come guardarmi allo specchio, non uno specchio normale, bensì uno di quelli deformanti dei luna-park. Questo perché mi sono riconosciuto se non nelle vicende di Angelica, la protagonista, di sicuro nei suoi problemi, nel suo essere bambina estraniata dal mondo, nella sua vita complicata soprattutto dalla mancanza di uno spazio minimo di confort, dove sentirsi apprezzati, difesi, dove essere se stessi senza dover ad ogni respiro dar conto della propria esistenza a giudici distratti e incapaci. Grande sintonia, quindi, e rispetto per l’autrice, ma assieme il disagio di dover rivivere sensazioni non gradevoli, per chi come me le condivide, con l’imbarazzo di vederle declinate in modi e situazioni, in una vita, che non è la propria. Ho avuto bisogno di molto tempo per trovare un po’ di coraggio per continuare la lettura, ma una volta ripresa ho finito il libro in un pomeriggio. E mi sono appassionato alle vicende di Angelica, a questa noria o Ananke o destino, in cui è imprigionata per cui le difficoltà di una generazione inevitabilmente si ripercuotono in quella successiva. In questa Sicilia alienata in cui è immersa, di cui si percepisce l’odore ma non impressioni visive, quasi si fosse abbagliati dal sole ogni volta che si scostano le tende per guardare fuori dalla finestra. Con persone che appaiono spesso come Moai, anche quando l’autrice ci permette di conoscerli a fondo, e noi cerchiamo un cuore ma non troviamo che pietra. E tuttavia Angelica cerca la sua strada, dapprima uno spazio in cui estraniarsi della sua famiglia, una perfetta famiglia del dopoguerra, capace di fornire benessere materiale, ma incapace di insegnare la gioia, perché priva di esperienze personali da cui trarla, e di ideali a cui ispirarsi. Poi un primo matrimonio fallito, una seconda unione, la difficoltà di diventare madre, la carriera professionale… E noi camminiamo con lei, verrebbe voglia di prenderla per mano, questa Angelica, e nello stesso tempo di correre via per non fare i conti con la nostra, di vita: benché questo non è un racconto sentimentale, ma profondamente umano, e le cose umane lo sappiamo, possono essere bellissime e dolorosissime assieme.
Pochi giorni fa uno scrittore, Ivano Porpora, mi spiegava come scrivere un libro sia un atto d’amore, un mettere il proprio vissuto a disposizione di sconosciuti per condividere con loro le nostre esperienze e, se va bene, aiutarli. Leggete “Uno spazio minimo”, e siate grati a Rosalia Messina, all’Editore e agli amici che l’hanno sostenuta in questa opera: perché se forse non c’è nessuna biografia almeno un poco romanzata, di sicuro non c’è nessun romanzo almeno in parte autobiografico, e quindi in questo racconto di amore, alla fine, ce n’è tanto. Tanto davvero. E anche gioia. La gioia alla fine di farcela!

 

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Drammatici aperitivi

Drammi quotidiani – Paolo Panzacchi

Io odio Fantozzi. Credo di averne visto un solo film, anni fa, quello con la corazzata Potëmkin, e poi basta. Se facendo zapping metto il tasto su di un film di Paolo Villaggio, cambio subito, e se fossi capace inventerei un Parental Control dedicato. Perché ho sempre trovato la comicità di Paolo Villaggio greve, aggressiva, una sorta di bullismo compiaciuto nei confronti di persone che per destino e per censo, nonché lo riconosco per mancanza di talento, non si sono potute permettere la vita che ha fatto lui. Se poi aggiungiamo che quella classe impiegatizia, così ferocemente sfanculata, godeva di condizioni contrattuali che oggi nei favolosi anni 2000 e passa ce le sognamo… bhe, ridere con Fantozzi mi sembra un atto di autolesionismo.
Così, quando mi son trovato alla presentazione di “Drammi quotidiani”, Pendragon Editore, il divertente e intelligente libro di Paolo Panzacchi, e la grande Marilù Oliva (Alt! Un consiglio da amico, ma di quelli veri: se sapete che Marilù sta presentando un libro, uno dei suoi magnifici o quello di qualche altro collega scrittore, piantate lì tutto quello che state facendo, e andateci: vi godrete un’ora di eleganza, di ragionamenti mai banali da parte di una persona colta e sensibile, di grande empatia e sensibilità e amore critico per la realtà che ci circonda… da Marilù c’è sempre da imparare, e dopo vi sentirete migliori)… quando ero alla presentazione, dicevo, e la bravissima Marilù ha esordito citando Fantozzi, un po’ mi sono sentito male. Ma solo un po’, perché Paolo ha parlato del personaggio protagonista del libro con simpatia e affetto, e Marilù ci ha fatto capire che “Drammi quotidiani” non è solo un libro divertente.
Perché è vero, “Drammi” è la tipica lettura da ombrellone, da fare in spiaggia senza vergognarsi di mettersi a ridere da soli, e anche spesso. Ma è anche un affresco, divertito e ironico, ma non caricaturale, della vita di una giovane coppia, assolutamente moderna nei suoi equilibri interni e nel suo dialogare con il mondo. Mondo che in prospettiva è occupato per una gran parte dalla figlia dei due, Elena. Se desiderate un libro divertente, “Drammi quotidiani” lo è. Un divertimento leggero, mai cattivo, a volte insistito ma dovete immaginarvelo, il Panzacchi, non mentre scrive ma mentre è ad un aperitivo e infila una battuta dietro l’altra per divertire gli amici. Il fatto è che Panzacchi oltre che simpatico è una bella persona e anche un gran lettore per cui, alla fine, superati i colpi di scena e la parte del libro che è un po’ meno divertente ma sostiene tutto il resto, ci si rende conto di aver affrontato in modo non banale argomenti impegnativi, che compongono quella scena, reale, dove noi lettori veri ci muoviamo, e Fantozzi non trova posto.

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Taranteja KRO

Narrativa – L’ULTIMO RE DI DELFI – Gianluca Facente

Ci sono racconti indimenticabili per la trama, altri per il modo in cui sono tratteggiati i personaggi, altri per gli ambienti o i periodi storici descritti, altri ancora, infine, per la passione che l’autore riesce a infondere nelle sue pagine. Se poi queste caratteristiche sono tutte presenti, mixate, e ci si aggiunge anche una buona dose di scanzonata ironia, allora quello che ci aspetta è una ottima lettura e ore di svago. Svago di quello buono, s’intende, dove divertendoci impariamo qualcosa. “L’ultimo Re di Delfi”, del crotonese Gianluca Facente, è uno di quei diamanti grezzi nei quali ci si imbatte per caso, e se ne è felici, perché presenta tutte queste qualità.
Quello che ci conquista in questo racconto onirico, nel quale il protagonista perde coscienza per trovarsi catapultato in una vicenda fantastica che ha per teatro la città di Crotone, e per fine il desiderio di riscatto dichiarato fin dalle prime pagine, è la ricchezza di riferimenti culturali, mitologici, storici, che ci rapisce in una danza arcana. È una taranteja, questo libro, una tarantella calabrese, che non ha nulla a che vedere con gli attarantolati: qui la “rota” disegnata dai danzatori è la danza di una comunità e di un territorio. È una taranteja i cui danzatori sono maschi, Ciano ed Ificle, e danzano per conquistare lo spazio e il tempo, all’interno della chora di Crotone, per ritrovare la memoria e per trarre da questa la forza per rigenerare la grandezza della città. È una taranteja di formazione, perché il protagonista via via acquista consapevolezze che gli consentiranno di superare la prova finale.
Non a caso il libro è dedicato al padre dell’autore, e nel testo c’è molto di paterno, nel senso di trasmissione dell’identità fra le generazioni, e di volontà di costruirsi la via per un futuro migliore. Un’ultima nota. Nel suo viaggio fantastico, fra una avventura e l’altra, di tanto in tanto l’autore cita canzoni in inglese, che risultano essere il legame più evidente con la realtà…vera. Questo è, se vogliamo, la prova più tangibile che l’autore ha voluto presentarci dello stato di smarrimento di identità in cui si trova Crotone e, con lei, l’Italia intera. Facente sta lottando per migliorare questo stato di cose, con forza ed entusiasmo, da comunicatore ed uomo di cultura qual è. Una cosa è certa: non rimarrà solo.

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Cosa leggo

Farfalle

Narrativa – LA LIBRAIA di Fulvia degl’Innocenti. Ed. San Paolo

In fondo siamo tutti farfalle. Non importa se passiamo la vita fra mille affanni, impegnati in azioni ripetitive e noiose. Non importa se come bruchi teniamo sempre la testa bassa, e ci ingozziamo con la nostra foglia, che può assumere infinte forme, ma sempre e solo una foglia è. Siamo tutti farfalle, ognuna diversa delle altre: bellissime, uniche e irripetibili farfalle. Il problema semmai è che nella nostra vita bulimica finiamo per dimenticare che da qualche parte le ali le abbiamo, e così non le usiamo. Solo se siamo davvero fortunati incontriamo sulla nostra strada qualcosa che ce le fa ricordare.
Chi ha l’occasione di leggere La Libraia, di Fulvia degl’Innocenti, ed. San Paolo, è sicuramente fortunato. Perché è un bel libro. Perché è scritto bene. Perché la trama è interessante. Perché è capace di riempire di echi le nostre anime, di suggerire con straordinaria naturalezza valori profondi, e lo fa dimostrando ad ogni riga un rispetto per il lettore raro al giorno d’oggi. Un rispetto, una delicatezza ancora più preziosi perché il pubblico a cui si indirizza libro è quello dei ragazzi, anche se la lettura è piacevolissima e consigliata anche e soprattutto agli adulti.
Il libro si divide in quattro parti. Il primo capitolo è assolutamente magico, per chi ama la lettura, ma affascinante per chiunque preferisca essere “una marionetta con l’anima” e non un Pinocchio dai “colori troppo vivi e gli occhi sgranati”. Seguono una prima serie di capitoli (le “scene”) dedicata all’adolescenza di Lia, ragazzina problematica. E abbiamo come protagonista una giovane che sì, è vero, è il prototipo della “vittima della società” (una madre sbandata e incapace, un padre estraneo e opportunista, una vita in comunità inadeguate…) ma finalmente fuori di ogni buonismo è descritta per quello che è: davvero antipatica. Seguono le “scene” in cui la ragazzina viene affidata alla Libraia, diventando apprendista in una piccola e affascinante libreria. Questa è l’occasione per tratteggiare un secondo personaggio originale, quello appunto della Libraia, che nasconde un passato insospettabile. Il rapporto fra le due donne, e con la libreria, occupa così la terza parte dell’opera, fino all’ultimo capitolo, dove la trama si risolve. La quarta parte del libro, quella nella quale Lia dispiega le sue ali, Flavia Degl’Innocenti non l’ha scritta, ma tale è il coinvolgimento che ha saputo creare nel lettore che, credetemi, ciascuno continuerà in modo personale il racconto immaginando per Lia nuove avventure e una vita nuova.
Due parole infine per ringraziare, assieme all’Autrice, i Librai capaci come Dedalo di fornire la ali a noi lettori distratti.

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