Cosa leggo

Padre e figlia ce l’hanno con Cris

Ho divorato  Cris. Preciso: Cris il libro, di Manuela Salvi, ed. Fandango collana Weird Young, appena uscito. È un libro per Young Adult che merita riflessioni circostanziate. Anzi, merita e basta: leggetelo. Fine.

Potevo cavarmela così. Però vale davvero la pena spiegare perché Cris sia una buona lettura. E ritenendo la mia voce insufficiente allo scopo, ho pensato di imitare Michele Monina (quel giornalista che commenta Sanremo scrivendo pagelle in parallelo con la figlia) ed ho passato il volume a mia figlia diciottenne Rachi (Rachele): ecco di seguito i nostri commenti.

RICCARDO

“Devo essere scemo!” ho pensato leggendo pagina 49 di Cris. La copertina riproduce un personaggio che ricorda Gary Oldman ne “Il quinto elemento”, quindi un cattivo, quindi il sospetto che il libro parlasse di un “ragazzo ribelle”, e che fosse tutta lì la novità, c’era già: alé, bum, senza nemmeno aver letto una riga. Perché adesso van di moda libri così, dove la “ribellione” del protagonista, femmina, dopo varie vicissitudini traguarda necessariamente in un successo planetario. Trattasi quindi di esercizi narcisistici, mistificazioni, dove il termine “ribelle” etichetta qualcosa in realtà del tutto organico al sistema.

Cris il protagonista, invece, è un giovanotto che ha già tutto dalla vita: è bello, intelligente, ha voti ottimi ed è stato ammesso all’Università. Ha una famiglia solida, benestante. Non ha nessun problema. In occasione del viaggio verso un luogo di vacanza, deciso come sempre dalla madre (il padre, più che modernamente pallido, è ectoplasmatico), si ritrova a far tappa in un Autogrill a ponte sull’autostrada. Lì la madre insiste perché vada al bagno nonostante lui non ne abbia bisogno, e scatta la ribellione. Cris si accorge che la sua vita è come un film la cui sceneggiatura è scritta dagli altri. Il suo benessere, i suoi stessi successi, sono in realtà pagati a caro prezzo con la totale alienazione della libertà. Decide così di scendere dall’altra parte dell’Autogrill, nella direzione di marcia che va verso il mare. Si sbarazza del cellulare per non essere rintracciabile, come ha visto fare in tanti film. E si ritrova a Riccione, senza un soldo, senza un posto dove andare, senza amici, per la prima volta totalmente padrone di sé stesso: quasi per caso, ma subito consapevole, comincia a costruirsi una nuova identità. Per mantenersi il ragazzo dovrà “arrangiarsi”, finirà per sperimentare l’alcool, amicizie equivoche e vivrà episodi sessuali trasgressivi. No, Cris non è un “ragazzo ribelle” nel senso che si diceva sopra. La sua storia è descritta come se fosse un reality, come se un drone seguisse il protagonista passo passo. Questo realismo rende Cris un personaggio straordinariamente vivo, tridimensionale, e assieme a lui i personaggi minori e gli ambienti vengono tratteggiati con efficacia. La sua è una ribellione vera, con una ben precisa contabilità dare-avere, un percorso di crescita non omologato.

Dicevamo di pagina 49. Un qualche americano ha sostenuto che per capire se un libro ci può piacere bisogna leggere pagina 49 (ogni volta che viene ripetuta ‘sta cosa, nel mondo quarantanove editor di quarte di copertina si danno all’ippica). In realtà io ci sono arrivato per caso, a pag.49, perché ho trascorso le prime 48 pagine a immaginare altrettanti modi di prendere a ceffoni il Cris. Ma, sia chiaro, schiaffi seri, smatafloni bolognesi col ciocco, paccaruni seriali napoletani, di quelli da ribaltarlo col giro, testa piedi testa e daccapo. Perché a un genitore certe cose proprio non gliele puoi far leggere. Lo fai stare male. Tutta colpa di Cris.

Cris è un ragazzotto viziato, con attitudine alle scelte isteriche, e manco troppo intelligente: un pollo. Parliamoci chiaro: a Riccione combina più o meno quello che avrebbe comunque combinato durante l’Erasmus, ma senza soldi e senza la scusa della barriera linguistica (pollo!). L’esperienza lavorativa l’avrebbe comunque fatta, per via di un tirocinio all’Università, con maggiori tutele giuslavoristiche (pollo!), o magari d’estate, per accompagnare la morosa a fare esperienza in una fattoria bio, maturando anche qualche punto di anzianità pensionistica (bio-pollo!). Ah, questi terribili genitori che gli avrebbero dato tutto ciò: mondo crudele!

Poi nel lettore il cuore del papà prende il sopravvento, e fra gli smatafloni si fa strada una sorprendente empatia per il protagonista. Per questo dicevo di sentirmi scemo. Perché pian piano ho fatto il tifo per Cris – che è come per un topolino fare il tifo per il serpente – perché superi i problemi e, soprattutto, decida di continuare a “scrivere” la propria vita in libertà. Ma, attenzione: questa cosa resta possibile solo recidendo i legami con tutte le persone che ci sono vicine, e nel libro ciò emerge forte e chiaro. Il tono dell’autrice può essere percepito come leggero e scanzonato, il che rende la lettura piacevolissima, ma di materiale per fare qualche seria riflessione ce n’è a piene mani, sia per noi che per i nostri ragazzi. Nel romanzo sono affrontati anche temi inusuali per la maggior parte dei volumi Young Adult, ma penso di poter rassicurare genitori ansiosi e lettori scrupolosi: non c’è nessun voyerismo o compiacimento, ma troverete la volontà encomiabile di mettere il lettore di fronte alla realtà lasciandogli poi la libertà di prendere posizione nei confronti della medesima. Visti i tempi, una gran cosa.

RACHI

“Ma tu sei scemo!” ho detto a mio padre quando mi ha chiesto di leggere Cris. Non ho mai letto nulla di suo, neanche quella volta che è andato di nascosto in copisteria, ha stampato dei suoi racconti e mi ha dato la carta perché ci facessi le brutte copie, nella speranza che per sbaglio leggessi qualcosa. Figuriamoci se leggo su suo consiglio il libro di qualcun altro.

Ma in copertina c’è il ritratto di un ragazzo super-bello, e assieme inquietante, tipo Dorian Gray, che mi ha intrigata, per cui alla fine ho accettato. Cris, il protagonista del libro, decide di tagliare i ponti con i genitori e muoversi in totale libertà. Fugge, si libera del cellulare e si ritroverà nella Riccione delle vacanze estive, colorata e accogliente, alla quale lui si approccerà da un punto di vista nuovo per noi lettori, nei suoi aspetti più umili, come se la guardasse a livello marciapiede dalle finestre a feritoia del seminterrato dove vive una sua amica. Disconnesso dalla sua realtà familiare, Cris si ritrova a vivere una avventura che lo porterà a conoscere il sesso, l’amore in varie combinazioni, e a raggiungere un equilibrio magari precario, ma che gli appartiene al 100%. Sì, è un romanzo di formazione, ma non enfatico né tragico. È una avventura agrodolce, alla fine tanto romantica, ricca di personaggi secondari che sbocciano con naturalezza, cameo troppo forti – NDP: nel senso di “parecchio belli” – nella loro caratterizzazione.

Una cosa nuova di questo libro è l’attenzione – a 360 gradi- alla fisicità. Non solo c’è una continua attenzione alle sensazioni che prova Cris (fame, sete, odori…), ma anche ai bisogni fisici, e alla dimensione sessuale. Sotto questo aspetto mi ha colpita l’attenzione al corpo di Cris, cosa nuova perché negli altri libri per Young Adult si parla sì di corpi femminili, ma mai di corpi maschili.

Anche il modo di rappresentare gli adulti è degno di nota: si va dalla famiglia normativa agli “adulti fuori controllo” che popolano la discoteca Mon Chéri.

L’unica cosa un po’ triste è che alla fine Cris non si mette assieme alla sua amica Lori o, meglio, la cosa gli riesce solo al 50%. E quando leggendo le ultime pagine ho pianto, ho pensato che fosse un po’ anche per quello: tutta colpa di Cris.

Fine

P.S. Nessuna figlia è stata maltrattata durante la redazione di queste recensioni. Nemmeno prima e neanche dopo, a dir la verità.

P.P. S. Rachi non esiste. Non ho nessuna figlia di nome Rachele (che io sappia). Mia figlia quella vera si chiama in modo diverso, ha pochi anni in più e scrive decisamente meglio di Rachi. Comunque, Cris lo sta leggendo e le piace.

Cris, Manuela Salvi, ed. Fandango, collana Weird Young, 2022, ISBN978-88-6044-815-6

Standard

Lidia, una vita per gli altri

Di seguito, il testo dell’articolo in memoria di Lidia Basso De Biase, che la Fondazione Mariele Ventre, che ringrazio, mi ha fatto l’onore di pubblicare sulla propria rivista (Anno VII, n.13, Giugno 2021). Un numero particolarmente prestigioso, che dedica un ampio inserto centrale al venticinquennale della scomparsa di Mariele Ventre.

Il Covid ha portato via Lidia Basso De Biase. Nata a Rieti il 18/02/1938, felicemente sposata a Luigi e mamma di quattro figli, amava definire se stessa “operatrice di solidarietà”.

In realtà la parola che forse la identifica meglio è “empatia”, intesa in questo caso come la capacità di intuire i bisogni altrui e di elaborare con intelligenza soluzioni efficaci per risolverli. Una facoltà che le è servita sia nella vita privata che in quella professionale.

Lidia è stata per più di trent’anni addetto stampa dell’Antoniano di Bologna, e si deve anche al suo savoir-faire il successo che ha avuto l’istituzione bolognese, oggi universalmente nota e capace di aggregare ai suoi progetti di musica e solidarietà tanti personaggi prestigiosi del mondo dello spettacolo, dello sport e della cultura.

Schiva quanto nessuno mai ad apparire in pubblico, sempre riconoscente alla sorella Gina di averle insegnato i “ferri del mestiere”, riusciva con semplicità disarmante a suscitare l’interesse dei mezzi di comunicazione agli eventi in cui era coinvolta, e di cui spesso era l’organizzatrice.

L’entusiasmo, l’abilità di concepire progetti ambiziosi e il talento quasi magico nel realizzarli (magia in realtà fondata sulla chiarezza degli obiettivi da perseguire, sulla determinazione nel procurarsi gli strumenti per riuscirci e sulla bravura nel coinvolgere le persone) la colloca a pieno diritto fra quei grandi Bolognesi che incarnando uno spirito costruttivo tutto “anni cinquanta”, proprio cioè degli anni migliori del dopoguerra, hanno fondato realtà destinate a durare nel tempo. Lidia ha fatto proprio il messaggio di solidarietà che l’Antoniano vuole trasmettere con le sue attività al punto di recarsi lei, già nonna e di certo fisicamente molto lontana dal tipo dell’avventuriera, in terre lontane come il Congo e la Bolivia per controllare che le iniziative dell’Antoniano a favore dei bambini fossero state concretamente realizzate e funzionassero.  Grazie all’impegno di Lidia si è creato uno splendido rapporto con l’orfanotrofio “Il sorriso di Mariele”, dove c’è un’aula a lei dedicata, in Bolivia, e si sono moltiplicate nel tempo le iniziative che hanno legato quella realtà a Bologna e all’Italia.  C’è davvero da chiedersi dove Lidia trovasse tutta questa “grinta”. Ma non a caso Lidia ebbe familiarità con i frati che dal nulla fecero nascere l’Antoniano come oggi lo conosciamo. E non a caso fu ammiratrice e amica di Mariele Ventre, anche qui costituendo assieme a Gina l’elemento meno noto e visibile, ma non per questo meno necessario all’equilibrio complessivo, di una triade di donne formidabili il cui esempio deve essere oggi di ispirazione a noi tutti. Per amicizia, e profondamente convinta della bontà dei progetti, poi pienamente realizzati, fu una grande sostenitrice della Fondazione Mariele Ventre, al punto che i primi due ragazzini iscritti ai corsi di musica furono i suoi nipoti.

Trascinata nel rutilante mondo del pattinaggio a rotelle dalla necessità di seguire la figlia Elisabetta, campionessa europea, ha ideato e organizzato numerose manifestazioni dedicate ai bambini, e non solo. In questo caso l’elenco è particolarmente lungo.

Per anni “Befana sui pattini” è stato un appuntamento fisso il 6 gennaio, al Palasport di Piazza Azzarita a Bologna, per tutti i bambini che desideravano passare un pomeriggio in allegria, in compagnia delle canzoni dello Zecchino d’Oro e delle evoluzioni di gruppi di giovani pattinatori in costume.

Per 25 anni, in collaborazione con la Fondazione Mariele Ventre, una formula analoga è stata proposta con l’intento, riuscitissimo, di ricordare Mariele, fondatrice del piccolo coro: il “Trofeo Mariele Ventre” permette di riascoltare le canzoni dello Zecchino, quelle classiche che da sempre sono impresse nella nostra memoria e che proprio Mariele portò al successo, e consente di vederle reinterpretate da decine di pattinatori provenienti da tutta Italia, spesso giovanissimi, con costumi sgargianti e coreografie meravigliose. Il Trofeo è davvero una festa per gli occhi, gli orecchi e il cuore. È l’occasione di riaffermare valori importanti: il rispetto per l’infanzia, il diritto all’allegria e al gioco.

Lidia ha ideato e spesso organizzato altre manifestazioni sui pattini: le “Zecchiniadi” a Monza, “Estate sui pattini” a Lido di Classe, e il concerto su otto ruote, come lei lo definiva, “Juri, una vita che continua” a San Lazzaro di Savena, dove campioni di pattinaggio si esibivano sulle note delle più famose arie di musica classica. 

Un legame particolarmente profondo si è istaurato nei decenni con la città di Roseto degli Abruzzi, il cui sindaco ha voluto ricordare pubblicamente in un commovente messaggio l’attività che Lidia ha svolto per fare della manifestazione “Sport per la vita” un evento di rilevanza nazionale. Anche qui motore primo dell’iniziativa fu l’amicizia di Lidia con Licia Giunco, dinamica insegnante di Roseto, che avendo assistito a una “Befana sui pattini” la contattò perché la aiutasse a realizzare a Roseto “qualcosa di simile, ma più bello”. Missione pienamente riuscita. Grazie a un eccezionale comitato organizzatore, sempre in contatto con Lidia, “Sport per la vita” vede da anni il coinvolgimento di campioni di pattinaggio, scuole fra le più preparate, personaggi della musica e della cultura che volentieri partecipano come ospiti. Ogni anno vengono raccolte cifre importanti da dedicare a iniziative di solidarietà, e dal 1993 viene assegnata la “Rosa d’argento” a personaggi del mondo della cultura e del sociale che si sono distinti per il loro impegno, con particolare riferimento al mondo dei bambini.

SI parlava di empatia: Lidia pur fra mille impegni ha usato questa sua virtù per tenere unita la sua numerosa famiglia: sua sorella Gina la descriveva come un grande albero, una quercia, i cui rami si allargavano protettivi  per raccogliere tutti i suoi cari.

Fra questi le quattro sorelle, tutte bellissime e ciascuna, a modo suo, “donna di successo” come lei. Sempre rimanendo in famiglia, va citata la stima piena di affetto per i cognati, fra i quali il genio Carlo Rambaldi tecno-papà di E.T.. E si deve ricordare come splendido esempio la dedizione l’amicizia profonda e dolcissima che la legavano in particolare alla sorella Gina, celebre giornalista e scrittrice, voce di RAI International.

La piangono il marito Luigi, le figlie Paola, Valeria ed Elisabetta, il figlio Gianmarco consigliere comunale a Bologna, i nipoti Laura ed Enrico, i generi Stefano e Riccardo, la cagnolina Luna e tutti quanti la conobbero.

Bologna, 23 marzo 2021

Cosa succede

Lidia, una vita per gli altri

Galleria
Cosa leggo

ARCHETIPO INVERNALE

Fotografia e poesia – INVERNO di Roberto Cerè

Al giorno d’oggi la comunicazione scritta è gestita quasi esclusivamente per mezzo di post e la parola è legata con costanza eccessiva all’immagine: il tempo è dedicato semmai alle serie televisive, per tutto il resto rapidità e superficialità la fanno da padrone.

Poi succede di trovarsi fra le mani un libricino come “Inverno” di Roberto Cerè.  Il formato è quello giusto, quasi tascabile, e rende facile poterlo portare con sé, infilato in una borsa o nella giacca, così discreto che potrebbe capitare di dimenticarsene, e sarebbe quasi una fortuna, per riscoprirlo al momento giusto, in occasione di una pausa, di una attesa, lasciandosi catturare dal suo fascino sottile. Un fascino che deriva dalla capacità inaspettata di rallentare, fino a fermarlo, il tempo che scorre attorno al lettore. “Inverno” è composto da 31 fotografie e 12 commenti poetici che con un suggestivo controcanto descrivono l’inverno in Valsamoggia. Sono foto che l’Autore ha scattato nel corso di lunghe e silenziose passeggiate, frutto di una attenta osservazione della natura. Pur essendo geograficamente collocate, le foto ritraggono aspetti così intimi e universali del creato, da assumere il valore di archetipo universale. Guardandole si prova la netta sensazione di riscoprire le immagini caratterizzanti dell’inverno così come esso è da sempre, fuori dagli stereotipi, come da sempre ciascuno di noi lo porta nel cuore. Sono foto indubbiamente belle, quelle di Cerè, ma non puntano per nulla all’effetto, alla lettura immediata e facile. Così costringono il nostro occhio a fermarsi, a indagare le immagini, apprezzandone ogni dettaglio, mentre la nostra mente rallenta e si ritrova come per magia nel regno cristallino e immobile dell’inverno. A differenza di quanto accade spesso in opere analoghe, per una volta i titoli dati alle foto e i commenti poetici sono perfettamente funzionali alla condivisione delle sensazioni che le foto ispirano. Così “Traccia ghiacciata” è “l’arco di quel piccolo ramo / avvolto dal ghiaccio del mattino / come un monile”, mentre nell’intreccio di rami di “Sentimenti di chi vuole esserti vicino”, “ci vedo due corpi intesi / ad abbracciarsi”. Bellissima poi l’ultima foto “Rivolo con luce d’inverno” che sembra uscita dal pennello di un grande pittore impressionista.

Ci sono piccoli libri che alla prova dei fatti rivelano un peso specifico importante: “Inverno” di Roberto Cerè è sicuramente fra questi. “Inverno” è solo il primo frutto di un progetto che vuole raccontare le quattro stagioni in Valsamoggia nel 2021. Roberto Cerè è anche l’ideatore di “Millecolline”, rivista d’arte web indipendente, che ha l’obiettivo di far conoscere quanto di “bello” accade in Valsamoggia e dintorni (www.millecolline.it).

Standard

BRAVE PERSONE CHE FANNO LA DIFFERENZA

Narrativa – ELIDE MALAVASI di Arnalda G.Forni Cavalieri, SEAB Editore

Un eloquio personalissimo, fluido, frizzante, fresco come un torrente di montagna, e al contempo prezioso, dotto. La capacità rara di tradurre in una dimensione prettamente bolognese, per non dire domestica, concetti e giravolte culturali di respiro almeno continentale, se non di più. Un’umiltà di fondo nell’approccio al contenuto, davvero magmatico dal punto di vista affettivo, che si fonde con l’elegante professionalità della divulgazione degli aspetti storici e culturali. Una superficie arruffata, increspata di emotività, al di sotto della quale si scopre via via un estremo rigore nella ricostruzione storica dei fatti…. e una ricostruzione storica che si stempera e sparisce nell’affetto non sentimentale, o non solo, ma profondo e razionale che lega ogni parola.
Tutto questo è “Elide Malavasi” di Arnalda G. Forni Cavalieri.
È un libro d’amore che suscita amore: questa la definizione migliore, perché altrimenti l’opera resta di difficile classificazione.
È intitolata a una persona, quindi ci si aspetta di leggere una biografia: nient’affatto! Come un Santo Graal, Elide Malavasi è indagata nel libro, e viene resa nota al lettore, ma alla fine molto di lei sfugge, resta una presenza ectoplasmatica, una specie di matrice capace di dare forma a quanti la conobbero, ma impossibile da conosce nella sua totalità. Un po’ come la luna che ha due facce, una sola delle quali visibile. Eppure il metodo atto a forgiare “brave persone che dovranno fare la differenza” messo in atto dalla protagonista è chiarissimo.
Non è un libro storico, prima di tutto perché il dialogo con il passato, sul quale pure è costruito, è talmente naturale e vivificante che ogni distanza cronologica crolla di fronte a una attualità innegabile.
Non è nemmeno un libro scientifico, anche se leggendolo non si può che essere grati all’autrice per come riesce a spiegare con efficacia concetti non sempre immediati di pedagogia.
L’opera è un’opera libera, quindi come si diceva poc’anzi non definibile, ma alla fine prova la verità del motto del padre e dell’autrice: “I libri sanno dove devono andare “. Ciascuno di noi saprà trovare, con soddisfazione certa, la sua personale chiave di lettura.
Bolognesissimo nei contenuti, e ancora di più se possibile nell’esposizione e nella mentalità che questa sottende, “Elide Malavasi” lascia stupiti per la descrizione di un microcosmo che si ricompone, in uno spontaneo caleidoscopio, in un racconto epico, capace di divertire titillando concetti primigeni, piacevolmente fulminanti. Un esempio? La pagina in cui si parla di Padre Marella dove deflagra questa frase: “si ancorò con forza al trascendente facendone una certezza tattile”.
La parte dove si parla del mitico ’68, e di come lo risolse la signorina Malavasi, è spassosissima, ed emblematica assieme di come andrebbe demitizzato quel periodo.
Bellissima la pagina sul rispetto, da stampare su volantini e distribuire ovunque, tanto al tempo d’oggi ci sarebbe bisogno di una riflessione sul tema.
Doveroso infine un applauso al prezioso apparato fotografico e di note che accompagna il testo.
In sintesi: lettura consigliatissima!

…A riprova di quanto detto sopra, il libro è stato apprezzato da sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, ed oggetto di un bell’articolo di Massimo Cutò su Il Resto del Carlino (il testo dell’articolo è disponibile qui: https://www.google.com/amp/s/www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/elide-malavasi-la-montessori-bolognese-1.6176084/amp)

(Elide Malavasi, Arnalda G.Forni Cavalieri, SEAB 2020,, ISBN 978-88-96278-01-7)

Cosa leggo
Galleria
Cosa succede

Inner Wheel: da Manchester a Valsamoggia

Inner Wheel (costola centenaria del più famoso Rotary) è probabilmente la più grande organizzazione femminile di service al mondo. L’associazione è stata fondata il 10 Gennaio 1924, quando Margarette Golding fu eletta Presidente di un Club in Manchester, costituito dalle mogli dei Rotariani: oggi conta circa 109.000 Socie appartenenti a 3.979 Clubs sparsi in 101 Nazioni e Territori, dall’Europa, all’Africa, India, Filippine, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, e Canada. Come recita lo Statuto, le finalità dell’Associazione sono:

  • promuovere la vera amicizia,
  • incoraggiare gli ideali di servizio individuale
  • favorire la comprensione internazionale.

La nascita nel 2020 del un nuovo club Inner Wheel Valsamoggia Terre d’Acqua assume un significato particolare. E’ sicuramente una ricchezza per la Valsamoggia, e per Bologna in generale, che una organizzazione così prestigiosa si radichi in un territorio così pieno di bellezza e di storia come il nostro. Il fatto poi che questa nascita sia avvenuta in pieno periodo di lockdown testimonia non solo l’intraprendenza di Maria Luigia Casalengo, animatrice di questa iniziativa, ma anche la sensibilità di concretizzare l’impegno e l’attenzione per il prossimo in un periodo così difficile, e l’intelligenza di farlo avvalendosi dell’esperienza di una organizzazione centenaria. Ringrazio Maria Luigia Casalengo e Analda Guja Forni per avermi invitato il 20 settembre alla Rocca Bentivoglio di Bazzano per assistere all’atto ufficiale della nascita di questo importante club.

Standard
Cosa succede

Giardini e terrazzi ci parlano

Domenica 13 settembre l’ormai tradizionale appuntamento con la manifestazione “Giardini e Terrazzi”, nella bella cornice della palazzina liberty dei Giardini Margherita di Bologna, si è arricchita di un nuovo appuntamento: “La frutta parla ai bambini e anche agli adulti”. L’esposizione delle opere di Giorgio Serra (il celeberrimo “Matitaccia”, artista e umorista di simpatia tutta bolognese) ha creato una atmosfera cordiale e simpatica nella quale è stato possibile ascoltare alcune interessanti relazioni. Ha preso la parola per primo il professor Aldo Zechini D’Aurelio, docente di Patologia Vegetale all’Università di Bologna, che ci ha parlato delle malattie delle piante: un intervento interessante, che andrebbe ripetuto ad ogni edizione di “Giardini e Terrazzi”, per aiutarci a crescere piante belle e in salute. Ha poi preso la parola Roberto Piazza, dell’Accademia Nazionale dell’Agricoltura (una istituzione tutta Bolognese che risale al periodo Napoleonico) che con autorevole simpatia, aiutato dai disegni di Matitaccia, ci ha fatto riflettere sull’importanza della frutta (specie quella chilometro zero) nell’alimentazione. Infine, con dolcezza e competenza, la tea expert Daniela Camagni ci ha spiegato come l’uso intelligente delle erbe nostrane è fondamentale per un percorso energetico e riequilibrante personale. Tutto questo è stato reso possibile dall’ospitalità degli organizzatori di “Giardini e Terrazzi” e dall’associazione Inner Wheel presente con il neonato club Valsamoggia Terre d’Acqua.

Standard
Cosa leggo

Neorealismo giallo

Narrativa – PRIMO VENNE CAINO di Mariano Sabatini, Salani Editore

Avvolgente. Parlare del secondo romanzo che Mariano Sabatini (Premio Flaiano, Premio Romiti e altri meritati riconoscimenti) dedica al suo Leo Malinverno, mi mette un po’ a disagio, perché so di non poter aggiungere nulla a un successo così meritato: provarci è una follia.
Però “Primo venne Caino” merita la follia di rubare in sacrestia, di brandire un cotton-fioc davanti a Greta, di ballare la macarena al cimitero. Merita soprattutto di essere letto e riletto. Perché ci si ritrova tutto quanto fa de “L’inganno dell’ippocastano” un bel romanzo e, soprattutto, ce lo si trova in misura anche maggiore.
In “Primo venne Caino” i personaggi si abbandonano a una sorta di sentimental-esistenziale ballo del palo intrecciato attorno alle gesta di un serial killer, il tatuatore, che uccide asportando alle vittime brandelli di pelle con tatuaggi. Su tutto giganteggia una Roma torrida, indifferente, sporca, dichiaratamente invisibile ai romani ma presente nel libro con scorci di abbacinante bellezza, proposta al lettore con una raffinatezza da gran letteratura e un realismo degno di Comencini. Non rimane deluso chi cerca il giallo, né chi ama i colpi di scena, né chi vuole conoscere meglio il personaggio ben tratteggiato di Leo Malinverno. Ma ciò che rende “Primo venne Caino” una opera dalla quale non ci si stacca facilmente, ciò che ne fa una prova letteraria prima ancora che un romanzo “di genere”, è la capacità dell’autore di descrivere una atmosfera, un ambiente, e per suo tramite un modo d’essere che può manifestarsi così solo in quella particolare dimensione spazio-temporale. Dicevo di Roma: una Roma respirata fra le pagine in tutta la sua meraviglia e la sua decadenza, una umanità che vi si aggira distratta, senza quasi proiettare ombre, come ne “La partenza degli argonauti” di Giorgio de Chirico, perché in quel luogo sublima il proprio dramma in una sostanziale inconsistenza. L’erotismo mediterraneo, soffuso ovunque, delizioso nella sua interpretazione retrò, anni ’70, trova la sua ragion d’essere più che nel fascino virile di Malinverno nella necessità di bilanciare il Thanatos che striscia fra le righe del romanzo: di più, è il controcanto all’intreccio di sentimenti che costituisce il non scontato bonus aggiuntivo alla storia di un crimine. Il coraggio di inserire in una trama “gialla” l’approfondimento psicologico anche dei personaggi secondari, la capacità di trattare con naturalezza argomenti non semplici come la malattia o i rapporti fra le generazioni, il modo disincantato di guardare al mondo dei “mass media”, la maestria nel rappresentare la realtà contemporanea in modo diretto ma con grande senso della misura: tutto questo fa di questa opera una esperienza letteraria che non si dimentica facilmente, destinata a durare nel tempo.
Senza dimenticare che uno scrittore, che negli anni duemila ha il coraggio di riesumare il sostantivo “belluria” in un’opera destinata al grande pubblico, merita già solo per questo tutta la nostra simpatia!

Standard
Cosa leggo

Lilith

Narrativa – Moon. Antologia a cura di Divier Nelli, Lisciani Libri

Prezioso. Anche quando non si è più giovani come il sottoscritto, non sono tanti gli eventi di rilevanza storica dei quali si può dire di essere stati testimoni. Ebbene, all’epoca dello sbraco sulla luna, il 20 Luglio 1969, io c’ero. Ricordo in modo abbastanza nebuloso il fatto che l’allunaggio fosse un episodio della rivalità fra le due superpotenze (che volete, le notizie mi arrivavano soprattutto tramite le immagini di Topolino o di Oggi, e qualche frammento di telegiornale; avevo capito che c’era una gara ma non esattamente fra chi)… ma ho ben chiara in mente l’immagine del sottoscritto che guarda la luna sperando che lassù ci si trovasse qualcuno, o di mia mamma che torna dalla parrucchiera con un incredibile gadget di plastica che simulava un frammento di roccia lunare (fin da allora classificato come orribile, eppure conservato per anni, se non altro come simulacro dello spirito imprenditoriale delle parrucchiere di periferia). Nettissimo poi è il ricordo della trasmissione dell’atterraggio con i commenti di Tito Stagno, e potrei citare a memoria alcuni libri celebrativi che prevedevano già per gli anni ’90 la prima base sulla luna. Tutto molto bello.
E poi?
Ottima l’idea di Divier Nelli di dedicare una antologia di racconti, alcuni di famosi scrittori di vaglia, altri di esordienti, tutti interessanti, allo sbarco sulla luna nella ricorrenza del cinquantennale: se i fatti storici sono noti, solo un approccio artistico a più voci può restituire attualità alle immagini in bianco e nero dell’epoca. Di più, la qualità dei contributi consente di distogliere lo sguardo dalla siderale freddezza dei dati scientifico-tecnici per riflettere su cosa davvero significò quell’evento a 50 anni di distanza. Un libro prezioso, quindi, per le inedite prospettive che consente di esplorare, e perciò quanto di più lontano da un “istant book” si possa immaginare.
Fra tutti i racconti, due parole vanno dedicate a “Il lato oscuro della luna” di Mariano Sabatini.
La capacità evocativa di Sabatini nel rappresentare Roma e la società romana è cosa nota ai moltissimi che apprezzano, non solo in Italia, i suoi gialli. Ancora una volta quindi è la capitale a fornire la scenografia nella quale si muovono i personaggi. Una Roma evocata con i nomi di strade celebri, descritta quasi incidentalmente per il suo clima o per la sua luce, e calata all’epoca del film “Vacanze romane” dalla vespa e dalla decapottabile guidate dal protagonista. Questa scenografia minimalista e rarefatta, lunare appunto, è popolata da individui decadenti che romani non sono, e che abitano lì solo per non essere altrove, o viceversa in attesa di andare presto altrove. Il protagonista de “Il lato scuro della luna”, il giornalista RAI Osvaldo Cataldi Manoja, è l’abitante perfetto di una Roma che, città eterna, si muove nel tempo per inerzia e arriva sempre in ritardo al presente: in questo caso ha ben poco del dinamismo della fine degli anni ’60. Cinico, anaffettivo, annoiato, il personaggio è descritto magistralmente nella sua inconsistenza e ahimè, nella sua valenza di archetipo dell’italiano medio. Che c’entra quest’uomo, di cui nel racconto percorriamo l’intera vita, con lo sbarco sulla luna? Niente, in realtà. Sabatini decide di descrivere l’allunaggio sullo sfondo di una storia d’amore. Dire di più significherebbe svelare più del dovuto la trama, ma l’importanza dell’opera sta nel valore metaforico che assume la vicenda umana rispetto all’episodio storico. Si viene così presi elegantemente per mano e portati a riflettere su cosa sia stato effettivamente dal punto di vista culturale lo sbraco sulla luna. E la risposta è chiara: una impresa fallocratica, una avventura straordinaria, eroica ma, senza seguito come è rimasta fin’ora, fondamentalmente inutile. La sensibilità artistica di Sabatini ci porta a pensare che in realtà in quell’allunaggio abbiamo perso molto più di quanto abbiamo guadagnato: la luna deflorata non interessa più ai poeti e nemmeno agli autori di fantascienza. Non serve nemmeno come meta di nuove spedizioni spaziali, nelle quali compare semmai, e non sempre, solo come tappa per un viaggio su Marte. L’allunaggio, quindi, ha lasciato dietro di sé il nulla. A meno che non si voglia vedere nella decadenza dell’occidente tutto, seguita a quella epocale impresa, la rivincita della luna, nelle vesti di Lilith, la luna nera, demone avverso al potere generativo maschile. E dopo cinquant’anni, che ne è stato dell’ormai anziano Osvaldo Cataldi Manoja? Lui è lì, sulle rive del Tevere, a dimostrare quanto sia vera la massima di Chateubriand: “Per un grand’uomo nascere non è tutto: bisogna morire”.

Standard
Cosa leggo

Le scarpe degli angeli

Narrativa – SHOEFITI Di Caterina Falconi, I romanzi della BLACK LIST, Lisciani Libri

Delizioso. Se questo romanzo fosse un dolce, sarebbe una ciambella, di quelle fragranti e ghiotte da assaporare con soddisfazione nel salotto di casa, sorbendo una tazza di buon tè. Magari vicino a qualcuno steso sul tappeto, con un coltellaccio piantato nella schiena. Eh sì, perché se in Shoefiti gli ingredienti del giallo ci sono tutti (rapimenti, sangue, avventura…), il racconto è però ricco di molti altri spunti, e il risultato complessivo viene ricondotto perciò a una dimensione che, per la sua naturalezza, è molto adatta ai più giovani.

Shoefiti è la moda di lanciare scarpe legate per i lacci così che rimangano appese ai cavi della luce, ai lampioni o agli alberi. Non si sa bene il significato di questo gesto, da alcuni ricondotto a un segnale per tossicodipendenti, ma la moda nata negli Stati Uniti si è diffusa ormai in tutto il mondo. Caterina Falconi ne dà una interpretazione tutta sua: sono le scarpe degli scrittori che, si sa, in genere hanno la testa per aria quindi, ça va sans dire, camminano nel cielo. Per conoscere un’altra interpretazione possibile, bisogna leggere il libro, dove due ragazzi abruzzesi sono chiamati a risolvere l’enigma del rapimento delle loro nonne: dovranno viaggiare fino a Bologna per risolvere il mistero. L’attento uso di tutti i topoi che fanno di un romanzo per ragazzi un buon romanzo, fa di Shoefiti il testo ideale per una scuola di scrittura dedicata alle opere per i più giovani. La scrittura di Caterina è fluente, l’attenzione alla realtà contemporanea è sempre presente, il riferimento dialettico con i valori con la “V” maiuscola è continuo, mai banale. L’uso frequente delle similitudini arricchisce la narrazione di immagini suggestive, il cui lirismo conferisce una profondità sensoriale alla vicenda e testimonia la sensibilità profonda dell’autrice: una vena poetica che proprio non ce la fa a restare carsica ma affiora in superfice tutte le volte che può. La tenerezza materna con cui sono delineati gli spasimi amorosi del protagonista dona alla storia sfumature delicate a cui non siamo più abituati. La solitudine degli adolescenti, non più bambini e non ancora adulti, la rabbia nei confronti dei genitori, l’affetto per i nonni, l’incomunicabilità fra le generazioni sono narrate come fatti naturali, quali tappe di un percorso di crescita, senza velleità rivoluzionarie o drammatiche.
L’ambientazione è precisa e suggestiva. Che piacere ritrovare l’Abruzzo che amo (errata corrige: la gente d’Abruzzo che amo, così rocciosa all’apparenza e così piena di cuore e passione appena ne diventi amico), i treni che sfrecciano inseguiti dalle onde del mare delle Marche, una Bologna godereccia, cialtrona e iperbolica.
Una storia piacevole che, con una equilibrata sapidità drammatica, senza cercare l’effetto fine a se stesso, sa ricondurre con naturalezza la dimensione dell’avventura alla rassicurante quotidianità del lieto fine.

Standard
Cosa succede

L’anno dei Vecchioni (3 novembre 2019)

Si sa, “I Vecchioni di Mariele Ventre” non è forse il nome più adatto, se si fa musica, a scatenare deliri da concerto rock o tifo da stadio. Eppure basta guardare come sono belli mentre si schierano sui gradini del coro, queste signore e signori che compongono il gruppo, per cogliere l’ironia con la quale oggi si può usare quel termine nei loro confronti. Ironia che deriva direttamente da quella con cui Mariele chiamava gli undicenni che, per ragioni di altezza più che di età, dovevano giocoforza concludere la loro esperienza nel coro dell’Antoniano. E la più giovane di tutti, appena dodicenne, è Francesca Bernardi, effervescente ideatrice di questa esperienza musicale, alla quale va subito un caloroso “grazie” per le emozioni che, con la complicità dei suoi amici, riesce a suscitare in noi spettatori.
Ora che ho esaurito le formalità, voglio dire fino in fondo quello che penso. “Vecchioni” è un nome profondamente trasgressivo in una società intrisa di un giovanilismo dozzinale, in cui tutto sembra orientato ai giovani (peraltro sempre meno numerosi), ma dove entusiasmo ed energia sono spesso scambiate con approssimazione e noia. Quindi ben venga questo nome, da portare con orgoglio come una cresta colorata, come un piercing d’amore, come una maglietta con su scritto “Bèla Bulåggna” !
Ci sono stati tre appuntamenti, fra le esibizioni di quest’anno dei Vecchioni, su cui vorrei soffermarmi. Sia ben chiaro: ci sono state altre “uscite” dei Vecchioni più importanti, altre presenze e riconoscimenti più eclatanti, ma questi sono quelli a me più cari fra quelli ai quali sono riuscito a presenziare: sì perché “I Vecchioni” orami sono così lanciati nel mondo dello spettacolo che non c’è settimana che non li veda protagonisti -loro e Mariele- di qualche evento. Citerò solo due appuntamenti: il”compleanno” di Mariele festeggiato alla Festa dell’Unità e, soprattutto, la grande notizia della trasmissione su RAI 1, oggi 3 novembre, del film dedicato a Mariele. In entrambi i casi i Vecchini sono stati protagonisti. Io però mi occuperò di altro.

La prima esibizione che vorrei ricordare è quella che si è tenuta il 19 maggio a Granarolo dell’Emilia, in occasione della dedica della piazzetta di via Irma Bandiera a Mariele Ventre.

I Vecchioni si sono schierati sotto il voltone di un portico… gente ce n’era davvero tanta, nonostante la giornata di pioggia. Per una volta i “Vecchioni” erano a….metri zero dal pubblico, ed è stato ancora più bello quasi toccare con mano la spontaneità e la precisione con la quale si esibiscono. In altri termini si potrebbe parlare di grande professionalità, ma il fatto è che questo sarebbe limitante. Sì, perché “I Vecchioni” non sono solo un ottimo coro, che di certo farebbe una splendida figura cantando qualsiasi cosa. “I Vecchioni” sono il coro degli ex bambini del Piccolo Coro dell’Antoniano, quello inimitabile di Mariele Ventre, che bontà loro hanno deciso di condividere con noi bellissime canzoni che forse possono apparire infantili nella forma, ma non lo sono affatto nei contenuti e nella espressione artistica. Quello che li rende insuperabili è l’essere dei portatori sani di felicità, dei moltiplicatori d’entusiasmo, dei disciplinatissimi giocherelloni: fanno sentire lo spettatore in famiglia, anche un po’ bambino, ma di quei bambini di una volta, che senza paturnie esistenziali ti ricostruivano il mondo dopo la fine della guerra. Energia positiva allo stato puro! Sempre preziosa la presenza di Maria Antonietta Ventre, emozionata, misurata ed emozionante. Infine, fantastica Mariele che da lassù, in una giornata di pioggia, quando è venuto il momento di dedicarle la piazza, ha fatto comparire un raggio di sole. In quella piazza due volte all’anno si terrà una gara di cori.

Il secondo appuntamento è stato…là dove tutto è iniziato. Grande emozione il 16 giugno per il concerto tenuto nello studio televisivo dell’Antoniano. Lo scopo era di beneficenza a favore dell’Antoniano stesso, e la platea d’onore era piena di personaggi di rilievo: politici bolognesi, il grande Mario Cobellini e il celeberrimo giornalista Mario Luzzatto Fegiz che ha poi dedicato un importante articolo all’avvenimento su Il Corriere della Sera. È stata l’occasione per ricordare anche che, se è su quel palcoscenico che il pubblico ha potuto conoscere i bambini del Piccolo Coro, in realtà è molto più importante la sala prove, lì vicina, dove i ragazzi provavano e provano ancora le canzoni con una disciplina davvero ammirevole, allora perché erano piccoli, oggi perché sono adulti con famiglia, carriere lavorative ed impegni. In quella sala c’è ancora, per sua espressa volontà, il pianoforte di Mariele. E ancora una volta la mente va a quanto eccezionale sia stata quella donna, per aver lasciato, a chi ebbe la fortuna di conoscerla, questa voglia di fare con un mix irresistibile di rigore ed allegria, che ha reso i suoi ragazzi una famiglia allora, e anche oggi, a distanza di tanti anni. Due parole sono doverose su Luciana Boriani: è lei che guida il coro, dai risultati si capisce quanto sia esigente, ma dirige con una umiltà che ricorda quella di Mariele, e una simpatia tutta sua. L’esibizione è stata arricchita, come sempre quando la location lo consente, dalla ennesima edizione del documentario inventato dall’irresistibile Francesca Bernardi. “Ennesima” in quanto, perfezionista come Mariele, Francesca continua a rivedere e limare la sua opera, adeguandola alla platea del momento e ai nuovi documenti scoperti: il risultato è uno spettacolo che si rinnova ogni volta.

Il terzo appuntamento, il 4 ottobre, è stato nella biblioteca della Basilica di San Francesco, per una raccolta fondi in favore del restauro del tetto della Basilica stessa. Questa volta si è trattato di un “radioconcerto”, perché le canzoni dei Vecchioni sono state intervallate, e spesso spiegate e introdotte, dalla voce di Mariele. In una parola: bellissimo! Bellissimo per la cornice, una biblioteca storica al fianco di un chiostro che consente una prospettiva unica sulla basilica. Bellissimo perché “I Vecchioni” son proprio bravi: ed era un piacere sentirlo dire -più volte durante il concerto- dal Maestro Stefano Nanni, a fianco del quale avevo l’onore di sedere. Bellissimo perché Maria Antonietta Ventre trova sempre modi nuovi per farci sentire vicina Mariele. Bellissimo per aver potuto chiacchierare con la splendida Liliana Caroli, per la disinvoltura di Giacomo Calzolari sempre più a suo agio nel ruolo di “bravo presentatore”, per la presenza sempre più amichevole di Mario Luzzatto Fegiz e quella commossa e commovente di Mario Cobellini. Applausi meritatissimi quindi per Francesca Bernardi. Applausi sui quali è doveroso fare una riflessione. Penso che “I Vecchioni” siano nati per gioco e per voglia di stare assieme, perché come dicevo prima Mariele è riuscita a fare di loro una famiglia, al di là dello spazio e del tempo. Già questi sono valori di grande importanza che è un piacere vedere testimoniati con tanta naturalezza. Mi sembra però che il progetto di Francesca stia diventando qualcosa di ancora più rilevante. La passione nella ricerca di materiali audiovisivi ormai storici, la capacità di dare loro nuova vita, l’abilità nel ripercorrere vecchi legami creatisi ai tempi del Piccolo Coro di Mariele sta pian piano realizzando un gande affresco che ci mette in contatto con un’Italia che non è più. Ne sta scaturendo insomma un vero e proprio lavoro storico che l’Antoniano, e ancora di più la Città di Bologna, non solo non dovrebbero lasciarsi sfuggire ma, in qualche modo, dovrebbero rendere permanente e fruibile nelle più diverse chiavi di lettura. “I Vecchioni”, così come li sta sviluppando Francesca, sono diventati un vero patrimonio culturale che va ulteriormente conservato e potenziato. Nelle mani di Francesca e con l’aiuto della Fondazione Mariele Ventre,  dell’Antoniano e della Città di Bologna, non c’è alcun dubbio che questo potrà accadere!

Mariele TV
E ora tutti pronti per la grande prima televisiva di stasera.

P.S.: “I ragazzi dello Zecchino d’oro” è davvero bello! Complimenti al regista e a tutti gli attori!

Standard