Narrativa – PRIMO VENNE CAINO di Mariano Sabatini, Salani Editore
Avvolgente. Parlare del secondo romanzo che Mariano Sabatini (Premio Flaiano, Premio Romiti e altri meritati riconoscimenti) dedica al suo Leo Malinverno, mi mette un po’ a disagio, perché so di non poter aggiungere nulla a un successo così meritato: provarci è una follia.
Però “Primo venne Caino” merita la follia di rubare in sacrestia, di brandire un cotton-fioc davanti a Greta, di ballare la macarena al cimitero. Merita soprattutto di essere letto e riletto. Perché ci si ritrova tutto quanto fa de “L’inganno dell’ippocastano” un bel romanzo e, soprattutto, ce lo si trova in misura anche maggiore.
In “Primo venne Caino” i personaggi si abbandonano a una sorta di sentimental-esistenziale ballo del palo intrecciato attorno alle gesta di un serial killer, il tatuatore, che uccide asportando alle vittime brandelli di pelle con tatuaggi. Su tutto giganteggia una Roma torrida, indifferente, sporca, dichiaratamente invisibile ai romani ma presente nel libro con scorci di abbacinante bellezza, proposta al lettore con una raffinatezza da gran letteratura e un realismo degno di Comencini. Non rimane deluso chi cerca il giallo, né chi ama i colpi di scena, né chi vuole conoscere meglio il personaggio ben tratteggiato di Leo Malinverno. Ma ciò che rende “Primo venne Caino” una opera dalla quale non ci si stacca facilmente, ciò che ne fa una prova letteraria prima ancora che un romanzo “di genere”, è la capacità dell’autore di descrivere una atmosfera, un ambiente, e per suo tramite un modo d’essere che può manifestarsi così solo in quella particolare dimensione spazio-temporale. Dicevo di Roma: una Roma respirata fra le pagine in tutta la sua meraviglia e la sua decadenza, una umanità che vi si aggira distratta, senza quasi proiettare ombre, come ne “La partenza degli argonauti” di Giorgio de Chirico, perché in quel luogo sublima il proprio dramma in una sostanziale inconsistenza. L’erotismo mediterraneo, soffuso ovunque, delizioso nella sua interpretazione retrò, anni ’70, trova la sua ragion d’essere più che nel fascino virile di Malinverno nella necessità di bilanciare il Thanatos che striscia fra le righe del romanzo: di più, è il controcanto all’intreccio di sentimenti che costituisce il non scontato bonus aggiuntivo alla storia di un crimine. Il coraggio di inserire in una trama “gialla” l’approfondimento psicologico anche dei personaggi secondari, la capacità di trattare con naturalezza argomenti non semplici come la malattia o i rapporti fra le generazioni, il modo disincantato di guardare al mondo dei “mass media”, la maestria nel rappresentare la realtà contemporanea in modo diretto ma con grande senso della misura: tutto questo fa di questa opera una esperienza letteraria che non si dimentica facilmente, destinata a durare nel tempo.
Senza dimenticare che uno scrittore, che negli anni duemila ha il coraggio di riesumare il sostantivo “belluria” in un’opera destinata al grande pubblico, merita già solo per questo tutta la nostra simpatia!